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Diritti / Silvia Brena /

Il tempo dell’ascolto

C’è una parola, che pare adatta allo spirito dei tempi. È una parola ebraica: Tikkun. Significa riparazione. È una parola antica, appendice di un concetto complesso: tikkun olam, riparare il mondo. Rappresenta per gli ebrei la tensione verso il rinnovamento e soprattutto verso la possibilità di fare il bene della società nel suo complesso.

Quanto dobbiamo riparare oggi, in quest’Italia rabbiosa e arrabbiata?

La mappa edizione 2017/ 2018 mostra ciò che da qualche mese è sotto gli occhi di tutti: il livello dell’intolleranza reciproca sta toccando temperature vicine allo zenit.

Mostra, anche, qualche variazione interessante rispetto alle edizioni precedenti. Tre, in modo particolare.

  1. Il numero dei tweet di odio è aumentato, ma sono diminuiti gli odiatori: quindi, chi odia online lo fa in modo seriale e organizzato. E se la prende soprattutto con i gruppi minoritari o socialmente più deboli.
  2. Sul podio delle categorie più odiate, restano le donne, ma il panorama che registra il lessico dell’intolleranza nei loro confronti è invariato. Sale invece in primo piano la rabbia contro lo “straniero”, per cittadinanza, cultura, fede.
  3. Sommando i cluster che si riferiscono a xenofobia, islamofobia e antisemitismo, la percentuale dei tweet dell’odio si attesta al 32, 45% del totale nel 2017 e sale al 36, 93% nel 2018: un balzo di 4 punti in pochi mesi = coloro che sono percepiti come diversi, “alieni”, sono diventati i nostri bersagli preferiti.

È il tempo della rabbia, in cui, come ha scritto Julia Ebner, ricercatrice dell’Institute for strategic dialogue di Londra, “la democrazia e lo stato di diritto possono collassare se le persone smettono di crederci”.

Viviamo dunque in tempi estremi.

Tempi in cui fermarsi a riflettere e aprirsi al dialogo, diventa fondamentale. Anche perché sono tempi dominati da una comunicazione essenziale, univoca, da voci furiose che si alzano a gettare nell’arena le loro frustrazioni e le loro rabbie per vite forse non risolte.

Lo schema orizzontale dei social ne favorisce il carattere di cassa di risonanza, tam tam che si nutre di semplificazioni ed estremizzazioni.

È lo sciame digitale che si agita e inizia a ronzare, promuovendo una certa radicalizzazione della rabbia. Il messaggio breve (texting) elide le sfumature e i contrasti, elimina la profondità. È l’era digitale, che si nutre di un’orizzontalità che appiattisce e non lascia sedimentare, nell’illusione che tutto si possa cancellare con un semplice clic.

Così il pensiero si semplifica e il messaggio si estremizza.

Si chiamano echo chambers, camere abitate da un’ecolalia ossessiva e ripetitiva, dove incontrare persone che la pensano come noi, il che aumenta l’effetto di polarizzazione delle opinioni. Esiste una correlazione tra linguaggio dell’odio e crimini di odio? Certamente, i social media possono diventare una corsia preferenziale di incitamento all’intolleranza e al disprezzo nei confronti di gruppi socialmente più deboli.

Ma la Mappa 2017/ 2018 fotografa anche alcuni elementi su cui vale la pena di soffermarsi.

Il primo, la decrescita dei tweet omofobi: dai 35.000 registrati nel 2016, si è passati ai 22.000 dell’ultima rilevazione. Potrebbe essere una conseguenza dell’approvazione della legge Cirinnà sulle unioni civili e del cambiamento culturale in atto nel Paese nei confronti delle persone omosessuali. Quindi, le buone leggi possono contribuire a promuovere un’efficace contronarrazione. Per affermare, come diceva Hannah Arendt, che “il più fondamentale dei diritti è il diritto di avere diritti”.

Il secondo elemento su cui riflettere riguarda il che fare, soprattutto a fronte dell’onda xenofoba che sembra percorrere il Paese. Molti studi recenti possono venire in soccorso, quando spiegano che nelle giuste condizioni, il contatto frequente tra gruppi etnici diversi può generare fiducia e abbassare l’ostilità reciproca. Dato, che sembra confermato dalla distribuzione dei tweet islamofobi nelle diverse regioni, dove le più colpite sembrano essere quelle dove la presenza di immigrati di fede musulmana è minore. Ma gli stessi studi spiegano anche che se società altamente omogenee incontrano per la prima volta persone esterne, il contatto può inasprire il conflitto.

Dunque, c’è bisogno di spazi di confronto. E di uscire dall’ecolalia delle echo chambers.

Quando comunichiamo via social, perdiamo la consapevolezza dell’impatto emotivo delle nostre parole. Perdiamo la capacità di sentire/ ascoltare le nostre vittime, i nostri interlocutori. Perdiamo, dunque, umanità.

È possibile indurre chi odia sui social a percepire l’impatto emotivo delle sue parole?  Ci sta provando Google, con un progetto chiamato Redirect Method, che usa l’intelligenza artificiale per rispondere al linguaggio dell’odio. Immaginiamo che un software di machine learning restituisca in tempo reale la percezione che i nostri post e i nostri tweet suscitano, come ci trovassimo di fronte a un’espressione del viso. Saremmo in grado di percepire all’istante ciò che abbiamo provocato: dolore, rabbia, paura, disperazione.

 “Non pensavo che le parole o un atteggiamento potessero produrre tanta sofferenza, non avevo riflettuto sul fatto che si può far male con poco.”

È il commento di un ragazzo di 16 anni del Liceo scientifico milanese Bottoni, liceo in cui VoxDiritti ha iniziato un percorso di sensibilizzazione contro il cyberbullismo, rivolto ai ragazzi. Le parole creano e modellano il mondo che vivremo, gli individui che siamo e che saremo. Sono il nostro racconto, la nostra narrazione.

Per questo oggi c’è bisogno di una contronarrazione. E c’è bisogno di ascolto.

In giapponese, per dire ascolto si usa l’ideogramma kiku. È l’unione di 3 ideogrammi: orecchio, occhio, cuore.

 

Scritto da: Silvia Brena

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