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Parità / Cecilia Siccardi /

Le quote rosa nei C.d.A.: il grande cambiamento

Nel 2009 in Italia corrispondevano al 6,8% nelle società quotate e al 4% in quelle a partecipazione pubblica. Sono le quote rosa, che per anni sono costate all’Italia la posizione di fanalino di coda per l’attuazione delle politiche di genere in Europa (noi di VOX ne abbiamo parlato anche qui, con il contributo dell’avvocato Ilaria Livigni). Nel 2013 però le cose si preparano a cambiare: 104 società quotate si avvicinano al rinnovo del consiglio, e grazie alla legge n.120 del 2011, più di 4000 donne sono pronte a entrare nei consigli di amministrazione, registrando il risultato europeo migliore dell’ultimo anno.

Sull’esempio di molti altri paesi europei, anche in Italia è stata introdotta una normativa in materia di parità di accesso agli organi delle società. La legge n. 120 del 2011 impone, alle società quotate e alle società controllate dalle pubbliche amministrazioni, di riservare la quota di 1/3 del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale al genere meno rappresentato. Sorta dall’iniziativa di Deputati e Senatori appartenenti a diverse forze politiche, la legge Golfo – Mosca rappresenta uno dei pochissimi provvedimenti bipartisan del Governo Berlusconi IV. Nel novembre 2009, al momento della presentazione della prima proposta di legge alla Camera, la sottorappresentanza femminile ai vertici delle società era talmente evidente da porre l’Italia agli ultimi posti delle classifiche europee e internazionali. Stando ai dati forniti dalla Consob, la rappresentanza femminile negli organi delle società italiane, era ferma al 6,8% nelle società quotate, e al 4% nelle società a partecipazione pubblica.

Non si tratta solo di una questione democratica, ma, come ha spiega la Vice Presidente della Commissione Europea Viviane Reading “la legge risponde ad un’esigenza economica.” Le proposte di legge in tema di parità di accesso agli organi delle società sorgono dalla convinzione che il sostegno all’occupazione e alla carriera femminile sia un presupposto necessario per la crescita e lo sviluppo dell’intero sistema produttivo. Inoltre, consigli eterogenei in termini di genere comporterebbero vantaggi, alle singole società in termini di miglioramento della performance finanziarie e di una più efficiente governance societaria. Non solo, dunque, una ragione macroeconomica, ma anche microeconomica.

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Nonostante siano passati orami due anni dall’approvazione della legge n. 120 del 2011, il tema del riequilibrio di genere ai vertici delle aziende è più che mai attuale. Il grande cambiamento, infatti, è previsto a partire dalla primavera del 2013, con ben 104 società quotate che si avvicinano al rinnovo del consiglio. Fra queste società, solo 12 presentano i consigli a norma con la quota.In sostanza, per allinearsi alla norma, le 104 società dovranno far entrare negli organi sociali 182 donne: 117 nei Cda e 65 negli organi di controllo.  Il vero banco di prova delle quote è rappresentato dalle oltre 21.000 società partecipate dalle pubbliche amministrazioni, che si preparano ad accogliere, nei loro organi sociali, oltre 4000 donne. La legge ha già iniziato a produrre i suoi effetti e molte fra le grandi società quotate, come Luxottica, Pirelli, Mediobanca si sono portate avanti, anticipando l’obbligo legislativo.

In questo senso, risulta di fondamentale le previsione di una sanzione, senza la quale l’obbligo legislativo rischierebbe rimanere privo di effetti pratici. Proprio la previsione della sanzione, considerata eccessivamente lesiva della libera iniziativa economica degli azionisti, ha particolarmente acceso la discussione parlamentare, durante l’iter di approvazione della legge. Tuttavia, la scelta del legislatore appare condivisibile, anche alla luce delle esperienze degli altri paesi europei. In effetti, la legge spagnola, non prevedendo alcuna sanzione, ma solo un invito accompagnato da incentivi, non ha prodotto i risultati sperati (40%) e la percentuale di donne nei consigli di amministrazione è ferma all’11%. Al contrario, in Norvegia, primo paese al mondo ad introdurre le quote negli organi sociali, dove la sanzione arriva fino allo scioglimento della società, la percentuale di donne nei consigli è stabile al 40%. La sospensione dei compensi degli amministrazione prevista per il mancato rispetto della quote negli organi delle società francesi, ha fatto volare la rappresentanza femminile dal 10% del 2011, al 25 % del gennaio 2013. Secondo la Commissione europea, è proprio l’Italia, dove si è passati dal 6,8% di partecipazione femminile ai vertici delle società dell’ottobre 2011, all’11% del gennaio 2013, a registrare il risultato migliore nell’ultimo anno.

Del successo della legge italiana è convinto anche il Parlamento europeo, che nell’ultima risoluzione sulla parità uomo-donna dell’Unione, ha citato la nostra legge come esempio positivo per tutti gli Stati membri: si tratta di un importante traguardo per un paese che è sempre stato considerato in Europa fanalino di coda per l’attuazione delle politiche di genere.

 

Cosa prevede la legge n. 120 del 2011?

– Obbliga le società quotate e le società controllate dalle Pubbliche Amministrazioni a riservare una quota del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale al genere meno rappresentato.

– L’applicazione della legge è scandita in due fasi temporali: nella prima fase (2013-2016) le società dovranno riservare al genere meno rappresentato la quota di 1/5 del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale; nella seconda fase temporale  (2016 – 2022) entrerà in vigore la quota di 1/3.

– La legge ha carattere temporaneo e le società saranno obbligate a rispettare l’obbligo legislativo per tre mandati del consiglio di amministrazione, a partire dal primo rinnovo degli organi sociali, successivo al luglio 2012.

– In caso di mancato rispetto dell’obbligo legislativo la legge prevede precise sanzioni:

a)     Per le società quotate:

- diffida da parte della Consob

- in caso di mancata ottemperanza alla diffida la Consob applica una sanzione pecuniaria (da €100.000 a €1.000.000 per i consigli di amministrazione; da €20.000 – €200.00 per i collegi sindacali) e fissa un termine ad adempiere di 3 mesi

- in caso di ulteriore inottemperanza alla diffida i componenti eletti decadono dalla carica.

b)     Per le società a controllo pubblico:

- diffida ad adempiere da parte del Dipartimento delle Pari Opportunità

- in caso di inottemperanza alla diffida i componenti eletti decadono dalla carica.

Scritto da: Cecilia Siccardi

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