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“Non sei me. Per questo ti temo, per questo ti odio”

Nuovi stili di comunicazione hanno rivoluzionato le nostre vite, hanno trasformato le nostre relazioni e interazioni, modificato i canali comunicativi, alterato il senso dello spazio e della distanza. L’inconsistenza e l’ubiquità dello spazio cibernetico, la sua capacità di moltiplicare e diffondere (di rendere “virale”) ogni nostro messaggio, trasformano, infatti, le community online nel (non) luogo privilegiato dove dar prova della propria esistenza (non necessariamente pensante) e prendere posizione su ogni argomento. Il senso della comunicazione sociale è cambiato in peggio e, sempre più spesso, porta con sé un ridimensionamento, se non una sopraffazione, persino un’eliminazione, dell’altro. La ricerca forsennata di popolarità e consenso ha stravolto le regole del confronto e del dialogo. Siamo di fronte a una vera e propria “subcultura” che annuncia la propria neo-identità attraverso uno strumento di espansione (il web) che assume velocemente forme pandemiche e cronicizza in forme aggressive l’insofferenza e il disagio quotidiano. Si crea così una condivisione di significati basata sulla combinazione di elementi discorsivi pre-esistenti (etnia, genere, religione, ecc.), l’innesto di elementi contingenti (paure, ansie, fastidi), il suggello argomentativo dei fatti di cronaca (rapine, violenze, ecc.), che, volontariamente o no, finiscono per degradare e disumanizzare l’altro.

Il numero esiguo di caratteri che compone un tweet consente (o addirittura favorisce) la diffusione e la condivisione di pensieri e atteggiamenti idiosincratici. Il risultato è l’elisione di forme di pensiero più articolate e l’estremizzazione verso il negativo. Il legame tra linguaggio dell’odio (hate speech) ed episodi di violenza (hate crimes) mostra come i social media possano diventare una palestra di incitamento al disprezzo agito nei confronti di gruppi minoritari o socialmente più deboli (per esempio le donne o i migranti).

Come definire, se una definizione è possibile, l’hate speech? Il discorso dell’odio contiene termini e affermazioni mirati a colpire una o più persone a causa della loro religione, del genere, dell’origine etnica, dell’orientamento sessuale, della disabilità fisica. Insomma, tutto ciò che nella mente conformista e normativa dell’hater rappresenta una pericolosa “varietà”. Il cyber-odio si condensa, dunque, in comunicazioni e concetti che l’odiatore veicola attraverso una tecnologia che gli consente di sfruttare quella convergenza di luogo, velocità e comportamento che l’ambiente virtuale garantisce. Dinamiche che osserviamo ormai da anni, senz’altro da quando abbiamo iniziato il progetto Mappa dell’Intolleranza.

Oggi però è cambiata la “morfologia” dell’hater. L’odiatore non è più l’anonimo leone da tastiera, quello che lancia il sasso di un tweet e poi nasconde la mano. Oggi si fa riconoscere. Vuole farsi riconoscere! Ha il petto in fuori e rivendica la ribalta. Non si sente più solo, ma legittimato. Si tratta di un cambiamento radicale e preoccupante. I bersagli dell’offesa, invece, sono sempre gli stessi. Silenziose o rumorose, infatti, le maggioranze (vere o presunte) hanno bisogno di confermare se stesse attraverso un capro espiatorio. Lo scelgono tra le cose che non capiscono, e inconsciamente temono, oppure che considerano “deboli” o “contaminanti”: di volta in volta le donne, le persone non eterosessuali, disabili, oppure quelle di culture, religioni e etnie “diverse” per non dire “impure”. E, guarda caso, se la prendono con i loro “corpi”: disprezzati nella sessualità e nel genere, ridicolizzati e umiliati, verbalmente aggrediti e persino stuprati in parole che sempre più spesso diventano fatti. Cesare Pavese diceva che “Si odiano gli altri perché si odia se stessi”. Che si tratti di “lupi solitari” o di “odiatori di gruppo”, il comportamento degli haters mira a esercitare sul mondo esterno (cioè su soggetti sociali) una forma di controllo perduta nel mondo interno (cioè nei propri sistemi di regolazione simbolica e relazionale).

Ecco dunque che l’insulto può essere letto come una forma primitiva di difesa psichica che si esprime attaccando aspetti fondamentali dell’umanità altrui. La psicoanalisi insegna che l’odio è un sentimento che tutti possiamo provare, ma che è fondamentale riconoscere ed elaborare. L’odio sociale di oggi, almeno quello degli odiatori digitali, potrebbe in parte rappresentare un rigurgito rabbioso contro la complessità di un mondo (sociale o privato) che sta andando in una direzione che fa paura o confonde. Contro le donne perché si teme la loro libertà e indipendenza; contro le persone gay e lesbiche perché il cammino dei loro diritti e della loro cittadinanza non può essere

più fermato; contro i migranti perché sono un fenomeno storico irreversibile che non può essere semplicemente “respinto”. Si grida di più per due motivi: in modo calcolato per aggregare consenso intorno a sé e in modo scomposto per cercare di contenere la paura nei confronti di trasformazioni epocali che spaventano e con cui non si è capaci, affettivamente e cognitivamente, di misurarsi.

Oppure l’odio si rovescia contro “l’altro” per definizione, quello che “devo” odiare per avere un’identità, perché se trovo un “non-io” allora avrò un “io”. Può funzionare così, dal calcio alla politica. Con i social network, basta un click per moltiplicare l’effetto. E questo fa sentire ancora più forti. Si pensa di parlare al mondo, affacciati al proprio balcone, e purtroppo a volte l’effetto è quello della benzina sul fuoco che trasforma in incendio ciò che poteva essere un fuoco fatuo. Cosa possiamo fare? Individuare il disagio e incontrarlo nel dialogo. La Mappa dell’Intolleranza permette di individuare le zone in cui l’hate speech è maggiormente twittato. Questo ci consente di attivare campagne preventive, sia attraverso l’elaborazione di materiali didattici e formativi, sia attraverso interventi nelle scuole e incontri allargati con le realtà territoriali.

Scritto da: Redazione

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