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Salute / Redazione /

La Ru486 e quei diritti violati

E’ di poche settimane fa la notizia che la Toscana ha autorizzato l’impiego della Ru486, la nota “pillola abortiva”, anche nei consultori e nei poli-ambulatori. Seguendo il modello adottato già in Francia, è la prima volta in Italia che l’aborto farmacologico è consentito anche al di fuori degli ospedali. Una svolta significativa per un farmaco che ha avuto un lungo e travagliato iter e che porta con sé lo scenario di un Paese, dove i diritti delle donne vengono troppo spesso violati. Raccogliamo la riflessione di Alessandra Vucetich, medico ginecologo e membro del direttivo di PRO-FERT, Società italiana di Conservazione della fertilità, e di CECOS ITALIA, Associazione italiana per la lotta alla sterilità.

La pillola abortiva, denominata Ru 486, è entrata in commercio in Italia da pochi anni ed è attualmente impiegata in moltissime regioni del nostro Paese. E’ recentissima la segnalazione relativa alla delibera della Regione Toscana che ne autorizza l’impiego anche a livello dei consultori familiari, o comunque dei poliambulatori ASL equiparati per funzione ai consultori stessi (leggi qui). Da quando ne è stato reso possibile l’utilizzo, dopo l’autorizzazione che data 1° aprile 2010, la pillola Ru 486 ha in Italia una distribuzione unicamente ospedaliera ed il protocollo di utilizzo prevede tre giorni di ricovero.

Sono ad oggi ancora pochissimi i casi in cui viene scelta la pillola Ru 486 come metodo per interrompere la gravidanza. E’ del 2013 la segnalazione che proprio in regione Lombardia due tra i più grandi reparti di ginecologia (Clinica Mangiagalli, Ospedale Buzzi), hanno contato ognuno circa 40 casi di interruzione di gravidanza farmacologica, contro i circa 1000 casi/anno di interruzione con la metodica tradizionale. Poiché però il metodo farmacologico è utilizzabile soltanto entro la 7a settimana di gravidanza (49° giorno dall’ultima mestruazione), si comprende facilmente quanto proprio questo fattore conduca alla riduzione drastica delle pazienti candidabili.

Due sono gli aspetti sui quali porre l’attenzione:
– non sempre la donna si accorge entro il tempo utile di essere in stato di gravidanza.
– l’accesso agli ambulatori per l’applicazione della legge 194/78 non è per niente facile. Questi ambulatori per legge devono essere presenti in ogni unità di ginecologia e ostetricia, ma bisogna ricordare come, ad esempio in Lombardia la percentuale di medici ginecologi obiettori di coscienza nei confronti della legge 194 sia di circa il 65% di tutti i ginecologi ospedalieri. La concomitanza di questi fattori, unita al fatto che, secondo le linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità, il protocollo prevede il ricovero ospedaliero di 3 giorni, rende ragione dello scarso utilizzo della pillola Ru 486. In un certo numero di occasioni il problema costituito dal ricovero prolungato viene aggirato dalla paziente stessa che si autodimette con rientro in ospedale due giorni dopo…una soluzione molto “all’italiana”.

Infine, vogliamo ricordare che assumere la pillola Ru486 non è certamente piacevole a causa degli effetti indesiderati che essa comporta. Il preparato da solo non induce l’aborto ma semplicemente “stacca i contatti” del prosieguo della gravidanza poiché è un anti-ormone, per completare l’espulsione del concepito è necessario però assumere anche un secondo preparato a base di prostaglandine, il percorso può risultare quindi lungo e doloroso.

La regione Toscana per prima ha adottato la modalità di impiego della Ru 486 seguendo il modello attuato in Francia: tale modalità lascia la donna libera di uscire dal poliambulatorio dopo due ore dall’assunzione, ma questa è tenuta a restare in contatto con il più vicino centro ospedaliero in caso si verificassero complicanze nelle 48 ore successive.

Le domande in merito quindi sono:
perché nelle altre regioni d’Italia non è possibile un impiego così lineare della Ru 486? Esso è forse diverso al di là del confine italiano? Sono forse i francesi meno attenti alla salute delle loro concittadine?
E’ chiaro che la risposta a tutti i quesiti è no, quindi ne deriva per forza che entrino in gioco aspetti culturali ed organizzativi che coinvolgono la società tutta.
Sorge infine il dubbio che risulti più semplice, forse più tranquillizzante per tutti gli attori coinvolti (compresa la donna), segregare l’evento dell’ aborto in una apposita sala operatoria, con appositi medici cosiddetti “abortisti” in appositi veloci day hospital in modo che risulti il meno disturbante possibile.
L’interruzione volontaria di gravidanza infatti è, e rimarrà sempre, in ogni contesto sociale, un evento profondamente disturbante, non potendo che rappresentare una totale, completa, amarissima sconfitta.

Scritto da: Redazione

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