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Diritti / Redazione /

“Trump? Premiato l’hate speech”

80 mila tweet. Sono i messaggi che il candidato repubblicano Donald Trump ha postato sul suo profilo Twitter durante la campagna elettorale: molti di questi erano misogini. Un uso della Rete, che si inscrive in quel solco dello hate speech che Vox ha documentato con le Mappe dell’Intolleranza. Vittorio Lingiardi, psichiatra e professore di psicologia dinamica all’Università Sapienza di Roma, tra gli autori delle Mappe dell’Intolleranza, riflette sull’impatto di odio e paura diffusi a mezzo social. Con una “ricetta” di speranza: un invito all’apertura e all’incontro reale. La comunicazione online non basta.

 

Il trionfo di Donald Trump arriva dopo una campagna elettorale caratterizzata da colpi bassi e attacchi velenosi senza precedenti…
“La vittoria di Trump è purtroppo anche la vittoria dell’hate speech. Durante la campagna elettorale, e nel resto della sua vita, il candidato repubblicano non ha risparmiato esternazioni aggressive e commenti svalutativi sulle donne e sulle persone che appartengono a minoranze discriminate. Il pericolo, ora, è che molti americani (e non solo) vivano l’elezione di Trump come un’autorizzazione ad alzare il volume dell’odio, facendo sentire le loro voci misogine, razziste, omofobe, xenofobe. Voci che vogliono alzare muri per difendere la ‘purezza’ dei valori. Invito a riflettere sul fatto che la candidatura Trump ha riscosso le simpatie del Ku Klux Klan e dei suoi simpatizzanti. Mi hanno raccontato che durante la sera dei ‘festeggiamenti’ vi erano supporter di Trump che scandivano slogan come ‘We hate muslim, we hate blacks, we want to take our country back’ (letteralmente ‘odiamo i musulmani, odiamo i neri, vogliamo riavere il nostro Paese’ ndr). Ecco, questa è la quinta essenza dell’hate speech”.

Twitter è stato il social più utilizzato da Trump per lanciare provocazioni e accuse nei confronti di Hillary Clinton e delle donne: con quali conseguenze?
“Purtroppo i social network, pur essendo strumenti di cooperazione e solidarietà, sono anche terreno di coltura di messaggi intolleranti: lo abbiamo visto con le nostre Mappe dell’Intolleranza, che hanno esplorato l’uso e la diffusione delle parole dell’odio attraverso Twitter. Vedo il rischio, ora, che questo atteggiamento di violenza e disprezzo verbale, esplicitamente legittimato da molte figure pubbliche, negli Stati Uniti come in Europa, superi i confini virtuali e vada a influenzare un clima politico globale, vanificando traguardi di civiltà raggiunti negli ultimi anni”.

Come sconfiggere i segnali di paura e di chiusura che si portano appresso odio e intolleranza?
“Se avessimo delle ricette per curare l’intolleranza non saremmo qui a parlarne. La vera protagonista di queste elezioni americane è stata la paura, che spesso regola il corso della storia, soprattutto nei momenti di crisi economica, ma anche in quelli di trasformazione sociale. E credo che anche l’avversione per una candidata donna sia stato un ingrediente decisivo. E questo è il dato più triste. Anche se non è facile, dobbiamo imparare a uscire dalle nostre ‘bubbles’ di civiltà (‘bolle’ anche geografiche, anagrafiche e sociali, come anche il caso Brexit ha dimostrato) e provare a incontrare, l’altra ‘bubble’, quella in cui si rifugia chi ha paura ed è rabbioso. Stati psichici, questi, che se non ascoltati e presi sul serio, possono diventare ‘eversivi’. Non possiamo che condividere le parole di Judith Butler quando dice ‘Non sapevamo quanto diffusa fosse la rabbia contro le elites, quanto fosse profonda la rabbia dell’uomo bianco contro il femminismo e il movimento dei diritti civili, quante persone fossero disilluse dalla deprivazione economica, quante persone fossero eccitate dall’isolazionismo e dalla prospettiva di nuovi muri e di un nazionalismo guerrafondaio. È questa la nuova ‘withelash’ (‘rivolta bianca’ ndr)? Perché non l’abbiamo vista arrivare?’. La rete, se usata con proprietà, può diventare uno strumento per ‘raggiungere’ l’altro. Ma penso che sia importante ora ‘uscire’ dalla rete e ritrovare il senso e il coraggio del dialogo e della conoscenza diretti, di quella che Sherry Turkle, grande studiosa della vita online, chiama ‘la conversazione necessaria’. Se non credessi nel valore del dialogo e nella necessità della conversazione per la trasformazione non farei il lavoro che faccio. Forse l’unica ricetta per superare le pagine buie della storia è, senza per questo voler fare parallelismi storici insensati, nelle parole di Anna Frank quando dice che ‘credo ancora che la gente abbia un cuore’. È l’unico modo per vincere anche quando si viene sconfitti”.

Scritto da: Redazione

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